PRATICA INTEGRALE - ​Riccardo Venturini

« Older   Newer »
 
  Share  
.
  1.  
    .
    Avatar

    Got ignorance?
    Uncertainty is an uncomfortable position. But certainty is an absurd one.


    Buddhismo, Buddhadharma, Buddha, Zen, Dzogchen, Soen, meditazione, Mahayana, Vaijrayana, Theravada, sesshin, ritiri, centriBuddhismo, Buddhadharma, Buddha, Zen, Dzogchen, Soen, meditazione, Mahayana, Vaijrayana, Theravada, sesshin, ritiri, centriBuddhismo, Buddhadharma, Buddha, Zen, Dzogchen, Soen, meditazione, Mahayana, Vaijrayana, Theravada, sesshin, ritiri, centriBuddhismo, Buddhadharma, Buddha, Zen, Dzogchen, Soen, meditazione, Mahayana, Vaijrayana, Theravada, sesshin, ritiri, centriBuddhismo, Buddhadharma, Buddha, Zen, Dzogchen, Soen, meditazione, Mahayana, Vaijrayana, Theravada, sesshin, ritiri, centri

    Group
    Amministratore
    Posts
    4,970

    Status
    Dal sito Cultura Buddhista

    https://culturabuddhista.weebly.com/insegn...-integrale.html

    CITAZIONE
    Caratteristica dell’insegnamento mahayana, e T’ien-t’ai in particolare, è quella di guidare a una pratica integrata (di tutti gli insegnamenti) e integrale (o incessante, in quanto applicata in tutte le circostanze e in tutti i momenti della vita).

    1. Pratica integrata delle paramita. - La pratica delle paramita, come si sa, è una pratica integrata, basata sulla loro mutua implicazione, da leggere come caso particolare della universale interdipendenza. Come ricorda K. Mizuno, “la legge di causazione ci dice che ogni fenomeno nell’universo è intimamente connesso a tutti gli altri. Non è quindi strano che nel triplice apprendimento, nelle sei perfezioni e nell’ottuplice sentiero ciascun elemento includa tutti gli altri e sia incluso in tutti gli altri”. Quindi nella pratica della generosità, ad es., dovrà considerarsi presente quella della pazienza, della perseveranza, della concentrazione mentale, etc. In particolare, assume una speciale importanza la sesta paramita, la sapienza o prajña, essendo proprio la sapienza, come realizzazione della Vacuità, a dare valore di “perfezione” alla pratica delle virtù convenzionali, trasformandone profondamente il significato. T. R. V. Murti, a questo proposito, osserva che la prajña è la “guida” delle paramita, senza la prajña le altre perfezioni sono cieche e prive di direzione. Né esse sono paramita senza la prajña; solo la prajña può portarle a compimento. La pratica delle virtù separate e gli atti di contemplazione occasionali non possono impartire quell’unità e unicità di scopo così essenziale alla vita spirituale. È la prajña che informa e dirige l’intero processo fin dall’inizio.
    Se le paramita, grazie alla loro mutua inclusione, sono in qualche modo indistinguibili, ciò vuol dire che saranno tutte da praticare, ciascuna nella sua specificità, o che basterà praticarne una sola? Questo interrogativo, che si è più volte presentato alla riflessione sulla pratica, è tutt’altro che “accademico”, in quanto le modalità della pratica saranno proprio condizionate dalla risposta data a questo interrogativo. Ecco come la domanda è posta nel Mo-ho-chih-kuan:
    D.: Se tu sostieni che un fenomeno include tutti gli altri […], una sola paramita dovrebbe bastare; perché impiegare le altre cinque?
    R.: Le sei paramita si integrano l’una con l’altra, proprio come i soldati che indossano un’armatura e quando avanzano tra le file dei nemici debbono rimanere a stretto contatto […]. La paramita di sapienza è essa stessa la Realtà universale e include tutto in sé. Pertanto, non c’è bisogno di altre cose. Ma le altre cose, cioè le altre paramita sono anch’esse la Realtà universale, ciascuna includendo ogni cosa in sé e non avendo quindi necessità della sapienza, poiché dal punto di vista della Verità ultima la paramita di sapienza è identica a tutte le altre cose e tutte le altre cose sono identiche alla perfezione di sapienza. Nessuna dualità, nessuna differenza tra esse.
    Ancora una volta vanno cioè distinti il piano assoluto e il piano relativo, per cui le cose sono tutte eguali nella loro natura ultima, ma anche tutte differenti sul piano convenzionale; quindi, nella pratica, il bodhisattva seguirà “prevalentemente” l’una o l’altra paramita, adattando la pratica ai diversi contesti, determinati dalle varie situazioni e dalle differenti necessità degli esseri senzienti bisognosi del suo aiuto.
    Nel Suramgamasamadhisutra, il Buddha afferma che il bodhisattva ha un possesso diretto e costante, in ciascuna delle sue attività, delle sei perfezioni, le quali permeano profondamente la sua mente e il suo corpo, divenendone parte integrante ed essendo tra loro così intimamente fuse che la loro pratica non può essere, in ogni istante, che una pratica integrata:
    Che egli sollevi o abbassi il piede; che egli inspiri o espiri, in ogni istante è sempre in possesso delle sei paramita. Perché? O Drdhamati, il corpo di questo bodhisattva è la natura delle cose e il suo dominio sono le cose.
    Drdhamati, supponiamo che un re o i suoi ministri triturino incensi di centomila differenti specie e le riducano in fine polvere, e supponiamo che qualcuno venga a cercare una sola specie di incenso, escludendo tutte le altre con esso mescolate. Allora, o Drdhamati, da questa fine polvere composta da centomila specie di incensi, sarà possibile estrarre una sola specie che non sia mescolata alle altre? […] Allo stesso modo, o Drdhamati, questo bodhisattva, avendo da molto tempo profumato il suo corpo e la sua mente con tutte le paramita, in ogni momento produce le sei paramita.
    Come dunque, o Drdhamati, il bodhisattva produce in ogni istante le sei paramita?
    1. Il bodhisattva ha rinunciato a tutto e il suo pensiero è senza bramosia e attaccamento: questa la sua danaparamita.
    2. La sua mente è buona, tranquilla, priva di male: questa la sua silaparamita.
    3. La sua mente è indistruttibile e non è ferita da nessuna cosa: questa la sua ksantiparamita.
    4. Considera attentamente e analizza la mente e ne riconosce il carattere di discernimento: questa la sua viryaparamita.
    5. È assolutamente tranquillo e capace di domare la sua mente: questa la sua dhyanaparamita.
    6. Esamina, conosce e penetra il carattere della mente: ecco la sua prajñaparamita.
    [In tal modo], anche attraversando i domini dei profani insipienti, i bodhisattva sono esenti da attaccamento, avversione e stupidità.
    La mutua inclusione delle paramita significa dunque che ciascuna è autosufficiente, includendo tutte le altre (punto di vista “assoluto” o versante “sapienza”), ma anche che nessuna può essere separata dalle altre (punto di vista “convenzionale” o versante “compassione”). Non diversamente dalle altre paramita, anche la meditazione conterrà le altre in sé, se praticata in una prospettiva di integrazione con le altre perfezioni, e quindi:
    i) senza “avarizia” e attaccamento alla stessa pratica, ma con una disposizione di generosità e col desiderio di condividerne i meriti con tutti gli esseri senzienti;
    ii) non suscitando pensieri scorretti;
    iii) con pazienza verso le difficoltà del compito e verso i disturbi che si incontrano;
    iv) perseverando con forte impegno;
    v) sostenendo la concentrazione sull’oggetto di meditazione e con l’attenzione volta a discernerne i caratteri;
    vi) con consapevolezza costante della vacuità di chi medita, dell’oggetto di meditazione e di quanto dalla meditazione deriva.
    Per il bodhisattva che agisce nel mondo, sempre tenendo presente il fine della liberazione di tutti gli esseri senzienti, se si accentuasse intenzionalmente l’esercizio “specialistico” di una sola paramita in contrapposizione alle altre, si produrrebbero nuovi dualismi e discriminazioni, col risultato di una pratica dismorfica ed egoica, in contrasto col fine generale della pratica. In particolare, la focalizzazione sulla pratica meditativa come pratica “separata”, per di più quando esercitata con equivoche aspettative psicoterapeutiche, lungi dal costituire un fondamentale e insostituibile strumento per realizzare l’obiettivo della conversione di vita, può rischiare di produrre l’effetto perverso di ulteriori inflazioni egoiche, sostenute dai valori dominanti nell’Occidente contemporaneo.

    2. Pratica integrata di calma e discernimento. – È noto come le tecniche di modificazione dell’attenzione proposte dall’insegnamento buddhista vengano a costituire due percorsi, tradizionalmente definiti come via della calma e via della visione profonda o del discernimento, in riferimento a due diverse modalità attentive. Le diverse scuole ne hanno suggerito la pratica integrata o alternativa.
    Anche se un certo grado di concentrazione è il necessario presupposto di ogni pratica meditativa, il percorso basato sulla progressiva e sempre più spinta concentrazione (samadhi) o focalizzazione dell’attenzione su un oggetto fisico o mentale passa attraverso una serie di stati di assorbimento e prende il nome di shamatha, che significa calma, serenità, quiete, per cui può essere indicata come meditazione di calma. L’altra modalità, denominata vipassana (pali) o vipashyana (skr.), da cui meditazione di discernimento o di visione penetrativa o profonda, impiega un’attenzione che riesce a osservare le cose a un livello appunto più profondo e più “vero” di quanto non si faccia con gli ordinari livelli di attenzione. Il fulcro dell’approccio vipashyana è costituito dalla pratica della consapevolezza (sati = consapevolezza, vigile ricordo di quanto viene osservato e operato, che costantemente deve accompagnare il praticante). Come l’osservazione al microscopio consente di penetrare nelle strutture dei tessuti del nostro organismo non visibili a occhio nudo, così l’attenta osservazione dell’oggetto di meditazione attraverso il microscopio mentale dell’attenzione profonda riesce a scorgere aspetti della realtà situati al di là della verità esteriore delle cose e che, come tali, sfuggono alla mente ordinaria. Poiché l’osservazione è un processo attivo di costruzione della realtà, anche questa attenzione è “guidata” dagli aspetti “cognitivi” propri dell’insegnamento a cui ci si riferisce e questo spiega perché è proprio a questo livello che le tecniche proposte dalle varie tradizioni spirituali si sono differenziate in modo più rilevante di quanto non accade per la meditazione di quiete. Come per l’osservazione al microscopio, lo strumento fornisce certamente la base per una osservazione nuova, ma ciò che può “vedere” in un vetrino una persona inesperta, uno studente di medicina o un professore di anatomia patologica sono cose tra loro molto diverse.
    Tra le scuole che prospettano l’integrazione delle due tecniche si colloca certamente la scuola T’ien-t’ai, la quale specifica che la meditazione va praticata con il metodo di chih-kuan (giapp.: shi-kan), espressione che traduce in qualche modo shamatha-vipashyana, calma e discernimento.
    La concentrazione arresta il brusio della mente e distrugge i pensieri dualistici ed egoici; la quiete viene a coincidere con la staticità dinamica dell’Assoluto inconcepibile. Tuttavia, anche l’esperienza mistica è marcata dal carattere della “transitorietà”, come è ben mostrato dal Piccolo discorso sulla vacuità (M.N., n. 121), in cui il Buddha descrive il passaggio dall’Uno al mondo della molteplicità dinamica e come l’estasi/vacuità si rovesci in molteplicità e pienezza. D’altra parte, dall’osservazione dei caratteri “negativi” della realtà fenomenica (impermanenza, insoddisfacenza e mancanza di esistenza inerente) si giunge a incontrare i caratteri “positivi” della Realtà incondizionata (permanenza, beatitudine, realtà). Il metodo, portato alla sua estenuazione, produce una sorta di capovolgimento: trattandosi ancora di “posizioni” che si muovono nel mondo del dualismo, esse rivelano-il e si tramutano-nel loro contrario. Nella fortunata formulazione di Chih-i è detto infatti: “Segui il provvisorio ed entra nella realizzazione della Vacuità; segui la Vacuità ed entra nel provvisorio; questa è la Via di mezzo”. Partendo dal molteplice viene realizzato l’Uno, partendo dall’Uno viene realizzato il molteplice: due percorsi parziali, da integrare e unificare nell’esercizio di una mente che, realizzando la verità della Via di mezzo, possiamo chiamare “mente della Via di mezzo”. A questa mente, capace di cogliere l’unità di vuoto e di forma, la “meravigliosità” del mondo nella sua determinazione, l’identità di nirvana e samsara, si addice particolarmente la qualifica di “mente del risveglio”.

    3. Integrazione in tutte le circostanze e in tutti i momenti della vita. – Essendo l’intento fondamentale della Scuola quello di realizzare la intuizione dell’assoluta assolutezza della Via di mezzo, attraverso la realizzazione della vacuità dei fenomeni e della mente che li designa, il metodo di pratica religiosa offerto non dovrà comportare separazioni e distacchi dalla vita quotidiana, ma dovrà risultare applicabile a ogni operazione della condotta e in ogni possibile situazione. All’illuminazione come utopia si sostituisce l’illuminazione come processo indefinito, da cui segue che la pratica spirituale non potrà che essere incessante. Chih-i avvertiva:
    È di primaria importanza sedere in posizione corretta, ma poiché il corpo è soggetto a molti legami, la sua condizione non è sempre la stessa e le circostanze variano. Noi dovremmo pertanto imparare a praticare chih e kuan in ogni condizione in cui ci troviamo e in ogni circostanza in cui siamo posti. Diversamente, la pratica sarà discontinua, la mente che pratica verrà distratta, i legami del desiderio e dell’attaccamento saranno rinnovati e le contaminazioni delle cattive abitudini intensificate. In queste condizioni come possiamo sperare di avanzare nella comprensione del Dharma o nella capacità di capire? Se, invece, conserveremo stabilmente la nostra mente sotto controllo e impiegheremo costantemente i migliori metodi di pratica allora progrediremo costantemente nelle nostre possibilità di comprensione e di realizzazione.
    Per essere applicabili in ogni circostanza e in ogni tempo, calma e discernimento andranno dosati e modulati in maniera adeguata alle diverse situazioni, in quanto l’assorbimento che si può raggiungere in una seduta di meditazione formale diviene incompatibile con l’impegno professionale, ad es., di un chirurgo o di un pilota. Ma se ogni operazione della condotta sarà accompagnata e guidata dalla chiara comprensione della motivazione e degli obiettivi, dall’attenzione alle opportune condizioni e aspetti dell’esperienza possiamo dire che ogni azione, senza soluzione di continuo, potrà essere vista come una condotta meditativa.
    Poiché le attività sono ovviamente infinite, potranno essere utili dei criteri-guida all’identificazione e alla valutazione del particolare oggetto dell’attenzione e dell’operazione della condotta. L’identificazione dell’oggetto (dell’esperienza consapevole) potrà avvalersi di qualunque mezzo atto a circoscrivere e individuare, tra cui primeggia quello del “nominare”, analogamente all’uso delle formule, di lode o ringraziamento, delle benedizioni ebraiche (beraka = benedizione, lode). Per la valutazione possiamo ricordare, ad es., le formule recitate al momento dei pasti (in cui si esprimono gratitudine, riflessione, edificazione, scopo e ideale), in occasione della rasatura o nel bagno. Sinteticamente, la ripetizione nella calma della formula ichinen sanzen può guidare a non attivare pensieri dualistici e a ricordare la interrelazione universale e l’unità di Mente, Buddha, esseri senzienti. Chih-i propone il criterio delle paramita e antiparamita (ricordiamo, tra l’altro, che dei 10 oggetti di meditazione quelli dal 2 al 10 rappresentano in effetti situazioni “negative” o anti-paramita), considerate relativamente alle condizioni e aspetti dell’esperienza, criterio che trova una ulteriore giustificazione nel riferimento alla pratica del bodhisattva. Dobbiamo osservare che essendo le 4 fasi applicate a 12 condizioni e circostanze, poiché ognuna delle 6 paramita “contiene” le altre 6, e venendo la pratica applicata in ciascuno dei tradizionali 10 destini o stati della mente, giungiamo a 17.280 unità di analisi o, addirittura a 51.840 se consideriamo anche le 3 Verità sopra ricordate. Lo schema seguente potrà essere utile per una presentazione sintetica del criterio adottato.

    CONDOTTE MEDITATIVE
    applicazione di shi-kan (= shamatha-vipashyana)
    a tutte le operazioni della condotta,
    esaminate considerando la pratica delle paramita
    nei diversi tipi di azione, aspetti dell’esperienza e tempi
    6 paramita
    6 anti-paramita
    gruppo socio-etico
    generosità
    moralità
    pazienza
    brama, attaccamento; dualismo, immoralità;
    rabbia, avversione
    gruppo energetico
    energia
    pigrizia, incostanza
    gruppo della conoscenza trascendentale
    meditazione
    distrazione [mente disturbata da ansia, sensi di colpa, etc.]
    sapienza
    ignoranza, nescienza

    6 tipi di azione (operazioni della condotta [corpo, parola, mente]), detti anche condizioni dell’esperienza
    6 aspetti dell’esperienza (interazioni tra sensibilità ed oggetti-stimoli)

    camminare
    stare in piedi
    stare seduti
    giacere
    parlare, mangiare, lavorare…
    tacere, pensare
    coscienza visiva
    coscienza uditiva
    coscienza olfattiva
    coscienza gustativa
    coscienza tattile
    coscienza mentale
    applicazione di shi-kan e sue conseguenze
    calma (shamatha)
    se la motivazione non appare degna e meritevole
    arrestare l’azione;
    se la mente è disturbata da pensieri egoistici e dualistici praticare la sospensione liberandosi dei pensieri che spingono all’azione; distanziarsi
    se la motivazione appare degna e meritevole
    portare avanti l’azione;
    concentrare la mente sull’attività; aderire all’azione; non attivare pensieri e atteggiamenti dualistici
    discernimento (vipashyana)
    realizzare che sia la mente agente sia l’azione sono vuote
    Affermata l’identità di samsara e di nirvana, la Via di mezzo come dottrina è il modo più proprio per esprimere il significato della Vacuità (pleroma ricco di tutto quanto può esistere), come pratica è il modo di vedere, percepire, vivere la realizzazione di essa nel mondo dei fenomeni.

    3.1. Dottrina - Nell’Endon shi-kan possiamo cogliere sia l’affermazione del più compiuto non-dualismo sia l’identità (o almeno la corripondenza) tra stato della mente e Realtà ultima.
    Qualunque sia l’oggetto del discernimento, esso è visto come identico al Mezzo. Non c’è nulla che non sia la Realtà ultima.
    Fissando la mente sulla Realtà universale e unificando la propria consapevolezza colla Realtà universale [realizza che] non c’è un solo colore o odore che non sia la Via di mezzo.
    Mente, Buddha, esseri senzienti sono, parimenti, [la Via di mezzo].
    Poiché tutti gli aggregati e le forme di sensibilità sono la realtà così come è, non c'è alcuna sofferenza da cui liberarsi.
    Poiché la nescienza e le afflizioni sono identiche al corpo illuminato, non c'è alcuna origine della sofferenza da sradicare.
    Poiché i due punti di vista estremi sono il Mezzo e le visioni erronee sono la Verità, non c'è alcun percorso da praticare.
    Poiché il samsara è identico al nirvana, non c'è alcuna estinzione [della sofferenza] da realizzare.
    Non essendoci né sofferenza né origine della sofferenza, nulla vi è di mondano; non essendoci né sentiero né estinzione, nulla vi è di sopramondano. C’è una sola, pura Realtà; non c’è nessuna entità al di fuori di essa.
    La tranquillità della natura ultima di tutte le entità è detta “calma”; il suo perenne splendore è detto “discernimento”.
    Il dualismo, ancora presente in certe correnti del buddhismo che separano il mondo della trasmigrazione da quello dell’estinzione (in quanto più dirette discendenti della filosofia panindiana, per la quale la vita è male e la via di salvezza è vista nell’uscita dal ciclo delle rinascite, da conseguire mediante una purificazione che attraversi, se nessario, più esistenze), viene qui superato con la conseguente valorizzazione della vita, in cui non ci sono mete da conseguire né differenze tra puro e impuro. Il problema della salvezza viene così a porsi in questo mondo e non allontanandosi da esso: poiché non c’è né sofferenza né origine della sofferenza non c’è neppure nessuna estinzione della sofferenza da realizzare.
    L’identificazione del samsara con il nirvana ci conduce lontano sia dai sogni infantili di Paradisi terrestri e Regni sovramondani sia da un samsara visto come il mondo contaminato della trasmigrazione. Siamo ricondotti al centro della pratica del bodhisattva, per il quale, senza fuggire nel nirvana e senza essere contaminato dal samsara, la sfida è costituita dall’accettazione amorevole del mondo, dal riuscire a dire di sì alla vita in tutte le sue manifestazioni (pur nel soggettivo sentimento tragico della vita) nella comprensione compassionevole del Dharma ovvero della Legge che “sostiene” tutte le cose.
    Passare dall’inautentico all’autentico, dalla banalità dell’événementiel all’essenziale significativo, dall’ontico all’ontologico è stato sempre l’obiettivo di ogni itinerario spirituale, di ogni via di accesso al sacro. Per parlare di sacro dobbiamo parlare di “totalmente altro”, “altro” in quanto unità dei contrari e superamento di ogni dualismo in una totalità onnicomprensiva. Come si prospetta allora la coincidentia oppositorum sulla base della coincenza del nirvana col samsara? E come il sacro può essere “altro” ma non altrove?
    Sulla base della fondamentale coincidentia espressa dal paradosso del nirvana identico al samsara e dell’Assoluto identico al mondo dei fenomeni, un sacro “altro” ma non “altrove” porterà con sé una nuova coscienza della coincidentia oppositorum, assoluta assolutezza che, superando la stessa opposizione di sacro e profano, porterà a vedere
    il sacro nel profano
    l’Uno nel molteplice
    l’assoluto nel relativo
    l’infinito nel finito
    la totalità nel frammento
    l’eterno nel transeunte
    il supremo nell’umile
    l’essenziale nell’apparente
    l’incondizionato nel contingente
    il libero nel determinato
    il permanente nel mutevole, e via enumerando.

    3.2. La pratica. – L’esercizio di calma/concentrazione e discernimento, come pratica religiosa, consentirà pertanto:
    · attraverso shamatha di realizzare l’unità come non-dualismo verso tutti gli aspetti della vita, felicità e sofferenza, positivo e negativo, di ogni cosa col suo contrario; tutto vedendo come ierofania (allargando sempre più l’orizzonte per includere ogni aspetto della vita, compresi gli eventuali disagi in atto); unità della mente, unità mente-corpo, unità soggetto-oggetto; non conflitto, non lamento; l’unità cercata da tutti i mistici, da Isaia (“nella conversione e nella calma sta la vostra salvezza, nel silenzio e nell’abbandono fiducioso sta il vostro eroismo”) a Hui-Neng (“in tutte le circostanze esteriori, non attivare pensieri [dualistici]”);
    · attraverso vipashyana di realizzare la visione profonda dell’unione di tutti i fenomeni nella interrelazione universale; la coincidentia oppositorum nell’Assoluto-Uno in quanto Totalità onnicomprensiva dei fenomeni e delle connotazioni (3000 mondi in un momento della vita!). Se ogni cosa è ierofania, se il Tutto è qui e ora, gli opposti sono qui e proprio qui è il sacro, il “totalmente altro”.
    Poiché è nel tempo, e cioè nella storia, che l’umanità incontra la sofferenza, le malattie e la morte, le calamità naturali e le ingiustizie sociali, l’homo religiosus non poteva non porsi la domanda: “la storia è sventura o progetto”? E la risposta religiosa è quasi sempre stata la proposta di una “via di uscita dal mondo”, cercando di consolare l’uomo con promesse (positive) di una possibile vita beata o almeno (negative) di una estinzione di vita e quindi di sofferenza. Nel Prometeo di Eschilo, Prometeo dice: “Ho liberato l’umanità dalla paura della morte”. E il corifeo: “Come hai fatto a liberare l’umanità dalla paura della morte?”. “Ho infuso in loro cieche speranze”, risponde Prometeo. E in Isaia e nell’Apocalisse viene promesso che il Signore “asciugherà ogni lacrima dai loro occhi”. Il buddhismo non propone questo tipo di consolazioni, punta invece sul valore della consapevolezza, invita a superare i dualismi, a sentire l’unità di vita e di morte, in una diversa concezione del tempo. In Occidente si abituati a considerare vita e morte come due opposti; in Oriente gli opposti sono, semmai, nascita e morte: la vita essendo l’unità di queste due parti, moriremo per il fatto di esser nati. Diversamente da Prometeo, diceva un maestro zen: “Superare la paura della morte? Basta solo morire”, cioè non aggiungere altre cose sopra la morte, prendendola come necessaria conseguenza del fatto d’esser nati e, proprio per questo, testimonianza del nostro essere contingenti, impermanenti e mortali. La proposta è quella di una visione della vita come assoluta unità di tutti i suoi aspetti, di vivere non escludendo nulla, cercando di poter dire sempre di sì al mondo, nei suoi aspetti positivi e negativi, non sentendosi mai in guerra con la realtà, accettando gli aspetti di “ombra” inevitabilmente presenti nell’esistenza. Se osserviamo il simbolo cosiddetto di yin e yang o del Tao vediamo che in questa immagine il bianco e il nero non si escludono l’un l’altro, ma realizzano una unità attraverso l’integrazione dinamica delle parti, attraverso il movimento che unifica, nel “vuoto mediano”, gli opposti luce e ombra, cielo e terra, sacro e profano, maschile e femminile, e via enumerando. Ma, in più, all’interno di ciascuna di queste due metà c’è un piccolo seme della differenza, dell’opposto, della vita nella morte e della morte nella vita, il che ricorda l’unità di positivo e negativo.
    Lo stesso concetto è espresso nell’aneddoto che racconta di quel tale che, in India, era amico di un macellaio, che andava spesso a trovare: “Una sera stava chiudendo bottega quando entrò un cliente e chiese un pollo. Proprio pochi minuti prima il macellaio mi aveva detto che quel giorno aveva venduto tutto, che gli era rimasto solo un pollo. Perciò, tutto contento, andò nel retrobottega a prendere l’ultimo pollo e, pesatolo, disse: ‘Sono cinque rupie’. Ma il cliente disse: ‘Questo pollo è un po’ piccolo. Stasera do una festa a casa mia, e verranno parecchi amici, ho paura che non mi basti. Mi dia un pollo più grande’. Io sapevo che non c’erano altri polli, questo era l’ultimo. Dopo aver rimuginato per un istante, il macellaio tornò nel retrobottega, si attardò un po’, poi tornò fuori, gettò lo stesso pollo sulla bilancia, e disse: ‘Questo viene sette rupie’. Ma il cliente disse: ‘Sa cosa faccio? Li prendo tutt’e due’. E a questo punto il macellaio era incastrato davvero!” In modo analogo, la vita tenta costantemente di incastrarci, ponendoci di fronte alle scelte tra opposti: di fronte a questi tranelli, dobbiamo invece essere capaci di dire “li prendo tutti e due”, cioè la luce e l’ombra, la vita e la morte, in definitiva, l’Assoluto nel relativo e il sacro nel profano. Le cose, dice il Sutra del Loto, sono fin dalle più lontane origini nirvaniche, il che vuol dire, come scriveva H. Hesse, che “il mondo non è imperfetto o impegnato in una lunga via verso la perfezione: no, è perfetto in ogni istante, ogni peccato porta già in sé la grazia, tutti i bambini portano già in sé la vecchiaia, tutti i lattanti la morte, tutti i morenti la vita eterna”. Non-attaccamento, dunque, non come indifferente distacco, ma come superamento dell’unilateralità.
    Se la calma/concentrazione, modulata in tutte le gradazioni, consente di comporre in un insieme unitario diversi stati di coscienza, dall’unione estatica del soggetto limitato e impermanente con l’Uno-Tutto, all’accettazione del dolore più lacerante che spingerebbe al rifiuto della vita, la consapevolezza dell’interrelazione universale realizza la visione dello splendore creativo della Vacuità, il superamento di tutte le contraddizioni, nello sguardo come quello del Govinda descritto da H. Hesse, che nel volto dell’amico (cioè di un singolo fenomeno) vedeva ormai anche “altri volti, molti, una lunga fila, un fiume di volti, che tutti venivano e passavano, ma che pure apparivano anche tutti insieme, e tutti si mutavano e rinnovavano continuamente”, in quel misterioso insieme, fuori e dentro di noi, e che si offre a essere considerato “con amore, ammirazione, rispetto”.

    4. “Mente, Buddha, esseri senzienti sono, parimenti, la Via di mezzo”. – L’identità della nostra mente con la Realtà ultima, conferisce, infine, un profondo significato alla nostra pratica incessante, secondo la lucida intuizione di Dogen, espressa nelle seguenti parole:
    Nella Grande Via dei Buddha e dei Patriarchi c’è una suprema pratica incessante che continua senza fine. Non c’è il più piccolo divario tra il risveglio della mente, la pratica, l’illuminazione e il nirvana; la pratica incessante è continuamente in moto. Pertanto, essa non dipende né dal proprio sforzo individuale né dallo spirito altrui. È pura pratica incessante. Il merito della pratica incessante sostiene sé e gli altri. La nostra pratica incessante riempie il cielo e la terra e influisce su ogni cosa con le sue capacità. Anche se noi possiamo non esser coscienti di ciò, così stanno le cose.
    Dunque, dalla pratica incessante di tutti i Buddha e di tutti i Patriarchi emerge la nostra pratica incessante e noi abbiamo accesso alla Grande Via. Dalla nostra pratica incessante, emerge la pratica incessante di tutti i Buddha e tutti i Buddha accedono alla Grande Via. Dalla nostra pratica incessante derivano meriti senza fine. Di conseguenza, senza fine, ogni Buddha e ogni Patriarca vive come Buddha, trascende Buddha, ha la mente di Buddha e diviene Buddha. In virtù di questa pratica incessante, si muovono il sole, la luna e le stelle, ed esistono la grande terra e il vasto spazio, il corpo e la mente, i quattro elementi fondamentali e i cinque skandha.
    Risvegliando la natura-di-Buddha dentro di noi, la nostra pratica ha il potere di diventare la pratica stessa del Buddha e la illuminazione del praticante nel mondo si dilata a illuminazione del mondo, nell’autorealizzarsi di quello che è stato chiamato lo Spirito universale. Se guardiamo alle nostre singole vite, per riferirci a consuete metafore, non più come a effimere onde del mare o a caduche foglie di un albero, ma come a necessari mezzi attraverso cui la grande Vita universale si esprime, l’esistenza e le realizzazioni personali del praticante vengono ad acquistare la dignità di realizzazioni del Mondo in cui e di cui egli vive. “L’esistenza dell’homo religiosus è aperta al mondo; l’uomo religioso, vivendo, non è mai solo, poiché una parte del Mondo vive in lui” (M. Eliade): se comprendiamo è il Mondo che si fa autocosciente in noi, se amiamo è il Mondo che ama, se creiamo armonia è il mondo che diviene armonioso… La pratica di calma-consapevolezza ci rende, in definitiva, responsabili non solo della qualità della nostra vita ma responsabili anche della qualità del mondo.
    In conclusione, la pratica proposta possiamo dire che risulta caratterizzata da:
    · unità di calma e discernimento;
    · applicabilità in ogni operazione della condotta;
    · passaggio dalla illuminazione nel mondo alla illuminazione del mondo.
     
    Top
    .
0 replies since 4/10/2022, 21:50   25 views
  Share  
.