Il pensiero filosofico di Franco Bertossa

confronto tra i pensieri filosofico e scientifico occidentali relativi alla coscienza e i modi della conoscenza interiore orientali.

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    Questo ping pong tra esistenza e realtà assomiglia tanto a quello tra nulla e qualcosità che accomuna ogni cosa :rolleyes:
     
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    CITAZIONE (fajuzi @ 1/8/2021, 15:38) 
    Questo ping pong tra esistenza e realtà assomiglia tanto a quello tra nulla e qualcosità che accomuna ogni cosa :rolleyes:

    Fajuzi, scusa eh, ma dove lo vedi il ping pong? Vedi che fai retorica e pure non di ottimissima qualità? :D
    Prima ti sei inventato sofisticamente che non ti avrei dato una definizione, poi hai corretto e hai inventato - contro ogni prova reale e citazione impugnabile - che non avrei dato una risposta che c'entrasse con la tua richiesta. Ora che ti sei reso conto di non poter continuare a sostenere queste due false tesi d'attacco, che fai? T'inventi il ping pong? :lol:

    Per avere un ping pong avrei dovuto definire - a sua volta - la realtà sulla base del termine esistenza. Potresti indicarmi il punto in cui l'avrei fatto? Avanti, io ti leggo con molto piacere :)


    Continui ad usare la fallacia dello strawman: mi attribuisci tesi a te comode per poter dare delle comode risposte perché non hai altri controargomenti - in oggetto - da spendere.


    Vuoi una definizione di realtà? È l'insieme delle cose dette "facenti parte della realtà", che hanno un rapporto(di vario genere) con gli altri elementi di tale insieme(realtà). È un semplice insieme.

    Tutte le cose elencate in tale insieme, allora sono reali e perciò(SOLO PER QUESTO) - secondo varie modalità di cui la "fenomenica" è una soltanto - esistenti.


    Nessun ping pong. L'esistenza è posta dall'essere elencati nell'insieme "realtà", ma l'insieme "realtà" non è posto dal termine "esistenza". Perché? Perchè la "realtà" è un insieme. L'esistenza - invece - la modalità attraverso la quale gli oggetti reali fanno parte dell'insieme "realtà ". Senza l'insieme "realtà" non può darsi alcuna modalità(esistenza) di appartenenza a tale insieme. L'insieme "realtà" pone la possibilità di essere esistenti(esistenza declinata in varie modalità: fenomenica, metaforica etc.) e non viceversa. Dove lo vedi il ping pong in un rapporto deduttivo a senso unico come questo? :D

    E non è che me lo invento ora questo rapporto deduttivo. Era chiaro già dalla mia straripetuta definizione:
    CITAZIONE (Ruhan @ 31/7/2021, 15:27) 
    In generale esiste tutto ciò che - in modalità diverse - fa parte della realtà.

    È chiarissimo da quel "fa parte" che ora ho sottolineato in rosso. Esiste SE E SOLO SE fa parte. L'esistenza è una modalità del far parte della "realtà". Senza l'insieme "realtà" niente potrebbe appartenervi e dunque non vi sarebbe nessuna modalità di appartenenza(l'esistenza, appunto).
    Ripeto. Dove lo vedi il ping pong in questo rapporto deduttivo diretto?

    O fai confusione o stai facendo retorica. Perdona la mia schiettezza..
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    Anche la definizione generale di pera è quella di far parte di un insieme formato secondo certe modalità. Molto generale.
     
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    CITAZIONE (fajuzi @ 1/8/2021, 17:33) 
    Anche la definizione generale di pera è quella di far parte di un insieme formato secondo certe modalità. Molto generale.

    Fajuzi, occhio che ad arrampicarti sugli specchi rischi di farti male :D

    Tu stai riportando la definizione generale di "elemento insiemistico", ovvero di QUALUNQUE elemento di QUALUNQUE insieme. E lo stai spacciando per la definizione di "pera". Eh no. "Pera" è al massimo: "elemento appartenente ad un dato insieme, ovvero quello delle pere".


    Ma andando oltre questa tua confusione. Ma dai? Ovvio che la tua definizione(di elemento insiemistico in generale) descriva anche gli elementi facenti parte dell'insieme "realtà": descrive OGNI elemento di QUALUNQUE insieme :D
    Che magra scoperta!

    Peccato(per te) che la mia definizione fosse atta a circoscrivere quell'insieme di tutti gli insiemi che è la "realtà". Nulla c'entra la tua definizione di "elemento insiemistico". Sono proprio definizioni differenti e non so come tu voglia spacciarle per uguali..

    Vuoi una definizione ancora più cogente di "realtà"(già contenuta implicitamente in quella che t'ho già dato?): è l'insieme di tutti gli insiemi possibili, attualmente esistenti o che sono esistiti.

    Nulla che non fosse già implicito in quanto già da me scritto:
    CITAZIONE (Ruhan @ 1/8/2021, 16:01) 
    È l'insieme delle cose dette "facenti parte della realtà", che hanno un rapporto(di vario genere) con gli altri elementi di tale insieme(realtà). È un semplice insieme.

    Tutte le cose elencate in tale insieme, allora sono reali e perciò(SOLO PER QUESTO) - secondo varie modalità di cui la "fenomenica" è una soltanto - esistenti.

    Mi pareva abbastanza ovvio che tale insieme("realtà") includesse tutti i possibili insiemi di cose dato che ho parlato di diverse modalità di appartenenza ad esso(non solo fenomenica come la pera, ma pure metaforica etc e via via modalità più particolareggiate).

    E non è una definizione che ho inventato ora la "realtà" come "insieme di tutti gli insiemi". Già ne parlai 2 giorni fa(pur senza approfondire per non allungare ulteriormente e data la inutilità di ciò in quel contesto). Ecco la prova testuale palese:
    CITAZIONE (Ruhan @ 29/7/2021, 21:33) 
    2) Nel caso del confronto tra due collezioni tale confronto fa giungere alla conclusione che la collezione Y non è elencata nella collezione W di tutte le collezioni, mentre la collezione Z è elencata.

    Il confronto avviene sempre con qualcosa e questo qualcosa è un elenco(anche fosse l'elenco di tutti gli elenchi) entro il quale si possa dire che una data cosa non è elencata.

    Qui usavo il termine "elenco" al posto di "insieme" perché semplicemente più adatto a far capire che cosa si intendesse nel contesto della discussione su Bertossa. Il senso è il medesimo.





    P.s. prima volevi definizioni generali; adesso non le vuoi più? :rolleyes:
    Cambio di strategia retorica? :D

    Edited by Ruhan - 1/8/2021, 18:22
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    Immagino che tu faccia riferimento a cose del genere:

    www.columbia.edu/~av72/papers/SistInt_2003.pdf

    ma non so se soddisferebbe Bertossa.
     
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    CITAZIONE (fajuzi @ 2/8/2021, 10:40) 
    Immagino che tu faccia riferimento a cose del genere:

    www.columbia.edu/~av72/papers/SistInt_2003.pdf

    ma non so se soddisferebbe Bertossa.

    Circa.


    Io - invece - non credo che Bertossa soddisferebbe un esperto di logica delle proposizioni o di ontologia :D
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    Articolo del 14/8/2020 dalla pagina Facebook del Maestro

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    Vie orizzontali e verticali

    Per poter affermare quanto segue occorre aver vissuto qualcosa di "altro" rispetto a quel che
    ordinariamente si vive.
    Due sono le direzioni di ricerca interiore:
    1. L'attingimento del principio cosciente.
    2. L'apertura alla coscienza del fatto d'essere.
    La prima via è la via dei mistici.
    Essi si domandano della "natura ultima" sia cercandola che confermandola nell'ambito "teologico"
    già precedentemente creduto.
    La seconda è via "a-teologica".
    Essa può generare disperati nichilisti suicidi così come dei Buddha.
    In chi si "realizza" nella prima via, tutto si compie quando "la goccia ritorna ad essere uno con
    l'oceano".
    Chi si affaccia sul bordo dell'abisso lungo la seconda via non vede compiutezze nel "come" di ciò
    che è - fosse anche divino - però se infila la direzione "retta" ("samyag" nell'Ottuplice Sentiero),
    neppure vede incompiutezza, a differenza del nichilista metafisico il quale può entrare in oscura
    disperazione causa il terrificante mutismo dell'essere.
    Il discrimine tra le due vie è l'entrata in gioco del niente e ciò non come concetto, bensì come
    significato precedente ogni concetto.
    Il niente si annuncia attraverso un sentire al quale la filosofia esistenziale ha dato i nomi di
    angoscia, senso dell'assurdo, stupore abissale.. e io aggiungo "miracolo di nessun Dio".
    Ragionarne con qualcuno a cui tale sentire non si sia risvegliato è dialogo tra un sordo e un
    udente.
    Risvegliare tale senso è l'obiettivo di vie buddhiste quali la Via di Mezzo nagarjuniana e lo zen.
    I mezzi (Upaya) sono vari.
    Dalla argomentazione spietatamente rigorosa che demolisce tutto e infine anche se stessa
    lasciando un puro nulla di affermabile, ai metodi anche violenti che creano shock mentali per aprire
    un varco alla visione del prodigio senza dèi.
    Le due vie summenzionate non sono essenzialmente in relazione, ma funzionalmente sì.
    La tradizione tantrica dei Gelugpa, i "berretti gialli", la setta del Dalai Lama, si serve dei più
    profondi stati di coscienza, attinti tantricamente, per realizzare che neppure la coscienza è
    autosussistente - ossia che è "vuota".
    "Vuoto" non significa vuoto di contenuto, ma vuoto di essenza propria.
    Non esiste la cosa "coscienza originaria" come enticità a se stante.
    Qui sta la sostanziale differenza tra tale estremo Buddhismo e l'Induismo in tutte le sue forme e
    anche con certi buddismi chiamati "Zhentong" (vuoto d'altro), ossia incentrati su un "vuoto
    cosciente originario" inteso come spazio cosciente vuoto di qualsiasi contenuto "altro", vuoto
    inteso come l'assoluta Natura di Buddha.
    Il 14mo Lama di Dalai, figura importante della tradizione Gelugpa, parlando dalla posizione
    filosofica Madhyamaka, chiarisce questo punto:
    "Una volta che uno pronuncia le parole "vacuità" e "assoluto", ha l'impressione di parlare della
    stessa cosa, cioè dell'assoluto. Se la vacuità deve essere spiegata attraverso l'uso di uno solo di
    questi due termini, ci sarà confusione. Io devo precisare questo, altrimenti voi vi ritroverete a
    pensare che la innata, originaria chiara luce realmente esista come verità ultima e assoluta."
    (Dalai Lama, the (1999). Buddha Heart, Buddha Mind. New York: Crossroad: p. 110)
    Io aggiungo che tale innata, originaria chiara luce sarebbe "vuota" anche se fosse intrinsecamente
    essenziata.
    La sua vacuità deriva dal suo esserci.
    Che sarebbe comunque assurdo e dunque non pienamente vivibile.
    Non esiste la possibilità dell'esser-si compiuto.
    Ogni essente appare in una luce respingente generata dal suo essere indebito, assurdo.
    E qui solo chi ha vissuto la voce del niente attraverso il risveglio di uno speciale sentire, può
    seguire appieno.
    Ma ho constatato che tale sentire è più diffuso di quanto non si pensi, solo non è riconosciuto,
    tematizzato e valorizzato - piuttosto è temuto.
    La scoperta fondamentale del Buddha consiste nel fatto che la visione ultima della infondatezza
    dell'essere equivale alla liberazione dalla sofferenza.
    Ma è una via da percorrere con attenzione massima e fino in fondo.
    Se si resta al di qua anche dello spessore di un capello, la Via è perduta.
    Precisa Nagarjuna:
    “La vacuità, male intesa, manda in rovina l'uomo di corto vedere, cos come il serpente male
    afferrato o una formula magica applicata male.”
    Affrontare la vacuità è cosa enorme, definitiva.
    Perché possa essere valorizzata occorre preparare in Occidente un terreno culturale capace di
    elaborare il problema della sofferenza a partire dalla sua origine: il mero fatto di ritrovarsi gettati
    nell'esistenza.
    Da nessuno.

    Franco Bertossa
     
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    Articolo dalla pagina Facebook del Maestro dell'8/8/2021
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    Il più difficile è aprirsi al significato del nulla.
    E con ciò della differenza rispetto al nulla che chiamiamo “essere”.

    I fattori in questione sono, dunque:

    1. nulla tout court
    2. il differente rispetto a nulla, l’altro-da-nulla che chiamiamo “essente”
    3. il sapere di tale differenza e patirne

    Il sapere del ritrovarsi ad essere - cioè a differire rispetto a nulla - comporta di patirne - ovvero di non poter restare indifferenti al fatto di ritrovarsi ad essere.

    Due sono i toni di questo pathos:

    1. inquietudine, fino alla ribellione e al panico
    2. gioia, fino all’estasi e alla “oltregioia”

    La ragione di entrambe queste tonalità del pathos sorgono dalla visione che l’esistenza è senza ragione e dunque senza possibile senso intrinseco.

    Il significato di “essere” in quanto “differenza-rispetto-a-nulla” non permette più di poggiarsi ad un fondamento quale è quello di un Creatore.
    Il Creatore stesso si ritroverebbe quale “differente-rispetto-a-nulla”, quale singolarità ingiustificata ad essere.

    Noi tutti ci fondiamo sul principio leibniziano del “nihil sine ratione”, “nulla esiste senza una sufficiente ragione alla sua esistenza”, mentre la verità è piuttosto “omne sine ratione”, “il tutto esiste senza ragione”.

    Il Creatore - l’alto Fattor di Dante - esiste di per sé, si obietterà.

    Se però osiamo soffermarci su questa eventualità cercando di tener fermo il significato di essere quale “differenza-rispetto-a-nulla”, quel sommo Fattor si presenterà - e non potrà che presentarsi - come un “differente-rispetto-a-nulla” reclamante una qualche sorta di ragione per la sua pretesa esistenza senza ragione ulteriore.

    Alcuni pensatori e mistici si sono arrestati a questo abbacinante punto: “Dio non richiede ulteriori ragioni per la sua esistenza.”

    Ma io vengo costantemente provocato da ciò che ho vissuto e ben visto: che, semplicemente, l’essente - ogni essente, e tutto l’essente, non è giustificato ad esistere - proprio non può esistere e in quanto si ritrova privo di condizioni e cause per la propria esistenza.

    Però esiste.

    E qui lo shock.
    Una luce buia che ti abbacina e ti risveglia al mistero.
    Al più terrificante prodigio: il miracolo di nessun Dio.

    Per mettere ordine, la questione di Dio va ridotta a:

    1. Dio è “causa di sé”.
    2. Dio non può essere causa di sé.

    Il primo è il Dio delle religioni abramitiche: ebraismo, cristianesimo, Islam.
    Il secondo è una Sapienza che ordina il cammino scaturente proprio dal fatto che tutto ciò che esiste, Dio stesso, è senza origine, senza causa, impossibile.

    Di tale secondo Dio si ha esempio nelle religioni e filosofie dell’India.
    Nell’induismo si assume che l’essente - l’universo, il tutto - sia eterno, da sempre per sempre; senza inizio né fine.
    Esso universo - Brahman - viene “ordinato” da Ishwara, ma non da esso creato dal nulla.

    Ishwara dispone il cammino delle singole anime che vagano nell’ignoranza acciocché esse possano risvegliarsi e riconoscersi quale Brahman stesso.

    Nel Buddhismo, invece, tale sapienza è la Natura di Buddha.
    Non ha lo stesso significato che Ishwara nell’Induismo poiché è più acceso il senso del ritrovarsi ad esistere.
    Ritornare al Brahman non sarebbe soluzione - mentre lo è nell’Induismo - ma condizione, seppure la più estrema, pura e somma. L'estremo inganno.

    Tra queste tre posizioni:

    1. Dio creatore di ogni cosa e causa della propria stessa esistenza
    2. Dio ordinatore del cammino della singola anima, ma non creatore dell’universo (Brahman). Qui il iconoscersi quale Brahman è la meta, il ritorno a casa.
    3. Sapienza - Prajna - che ordina il cammino della individualità, ignorante della propria più o meno lucida “gettatezza”, dove OGNI essente - anche il Brahman - è solo condizione di un evento oscuro dell’esistenza.
    Non esiste luogo dove insediarsi quale propria sede ultima.
    La soluzione è trovare il lecito rapporto con l’esistenza - lecito, ovvero tale da non generare ulteriore karma.

    II discrimine in tutti noi sta nella particolare sensibilità ai significati di singolarità, gettatezza, ritrovarsi ad essere, stranezza per il fatto d’essere, assurdità dell’essere, stupore per l’essere.

    Se tali voci si risvegliano potentemente in noi, spontaneamente ci ritroveremo nella terza posizione, poiché tali voci sono insopprimibili e mostrano il vero più radicale: l’infondatezza dell’essere.

    Ma è anche la strada più difficile perché occorre attraversare un luogo “freddo e deserto”, come dice il Maestro Rikkyu ne “Morte di un maestro del té”.

    Un abbraccio a tutti coloro che sinceramente cercano la verità e che la Cosa non cessi di prendersi cura di loro.
    Augurio inutile, perché mai cessa.
    Invero esiste solo la Cosa.

    Il nulla lo garantisce.
    ...

    Franco Bertossa
     
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    Articolo Dalla pagina Facebook del Maestro Franco Bertossa

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    Lo Zen non è altro che la costante testimonianza di
    "Forma è proprio e solo vuoto, vuoto è proprio e solo forma… e lo stesso vale per gli altri ambiti di esperienza (skandha): affezione, concezione, intenzione, coscienza".

    Oltre a questi ambiti d'esperienza non v'è altro.

    Zen è comprensione e testimonianza del Sutra del Cuore.
    Il maestro cerca di risvegliare l'allievo a tale verità in tutte le sue tonalità.
    I cento casi, o Koan, della Raccolta della Roccia Blu (Bìyán Lù) sono un celebre percorso nella chiarificazione vissuta del Sutra del Cuore.

    La mente con cui si risolvono i Koan non è quella razionale e neppure è la psiche, bensì è la Prajna che io chiamo "mente altra" (non "altra mente") o "sapere differente".

    - "Forma è vuoto"; ma cos'è forma (rupa)?
    Tu, la tua mano, la tua pelle…
    - Cos'è affezione?
    Il fatto che qualcosa ti piaccia o non ti piaccia (vedana).
    - Cos'è concezione (samjna)?
    La stiamo usando per ragionare.
    - Cos'è intenzione (uno dei samskara)?
    La tua volontà di capire.
    - Cos'è coscienza?
    Appunto!

    - E vacuità cos'è?

    Vacuità non è qualcosa. Se fosse qualcosa, di quel qualcosa si darebbe vacuità.

    Ma per assaporarla, basta che fissi la tua mano - o una qualsiasi cosa - al di là del tempo di uso convenzionale di essa.
    Insisti e accadrà che cesserai di riconoscerla, si stranificherà.
    Può accadere che essa si stranifichi e ciò PROPRIO perché resta mano.

    Esiste una mano nell'universo… Assurdo e prodigioso!

    Eccoquà: sprazzi di vacuità.

    Ma stare nella vacuità non è permanere nello stranimento perpetuo o nella olimpica unità di tutte le cose.

    Ecco un bell'esempio:

    Un monaco chiese:- Un discorso raffinato ed uno volgare, entrambi hanno lo stesso significato (nella vacuità), giusto?
    Touzi rispose: - Sì.
    Il monaco disse: - In questo caso posso chiamare stronzo il maestro?
    Touzi assestò un bel colpo al monaco.

    Forma è proprio e solo vuoto… proprio perché È proprio e solo forma.

    Bam!

    Se non capisci, trenta colpi.
    Se capisci… trenta colpi!

    Franco Bertossa
     
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    Articolo del 3/9/2021 dalla pagina di Facebook del Maestro
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    Tu e l'assurdo - il Sé e la vacuità
    ---
    Cosa rende uno il tutto?
    Dev'essere un aspetto a cui ogni ente deve sottostare e già dicendo "ente", la direzione è avviata: è il fatto d'essere.
    Tutto ciò che è, è.
    Pare banale, questo raddoppio, ma in esso si cela un mistero.

    Occorre dunque esplorare il significato di "essere" su cui si scivola facilmente.

    Heidegger, riferendosi a filosofi e anche a teologi, osservò: dicono "essere", ma continuano a pensare "ente". L'Uno, Dio, sono enti.

    In che sta la differenza?
    Appunto nella Differenza.

    Niente paura, la Differenza non è un concetto, poiché anche ogni concetto è differente… da niente. Differenza rispetto a niente è lo stesso che dire essere.

    Di te.

    E qui sta il cuore della cosa, ma non si può penetrarlo se non vivendo una certa esperienza - esperienza non è concettualità; agli occidentali va ripetuto sovente.

    All'occidentale, spesso incentrato sul solo intelletto, urta di non poter avere accesso ad una dimensione che pur pare essenziale, se non dopo un'esperienza particolare di risveglio, però io stesso, da intellettuale occidentale, amante di tutto ciò che l'intelletto produce, vi confermo che è così.

    Tale esperienza ha come cuore essenziale il nulla e le sue voci.
    La prima è la voce dello stupore, del senso di stranezza provata per il semplice fatto che qualcosa esista - e non nulla.

    Tale sfondamento nella consapevolezza accade a seguito dell'accensione di quel che Hakuin, grande maestro zen del '700, chiamò la "massa dubbio" che, "come una palla incandescente da te inghiottita, ti arde in gola senza che tu possa né sputarla né inghiottirla".

    Il dubbio perseguita notte e giorno, toglie ogni altra motivazione alla vita, prosciuga ogni senso.
    Qualcuno comprende di cosa parlo, altri no.

    Poi accade invece che il dubbio, in uno spasmo estremo che pare di sconfitta, esploda e mostri il Miracolo di nessun Dio: essere, il prodigio dell'essere senza creatori di esso - poiché un creatore stesso sarebbe, esattamente come me.

    Qui si danno due esiti possibili che io distinguo nei termini di "essersi" ed "esserci"; esser-si o esser-sé porta alla beata fusione coll'Uno; (ritrovarsi ad) esser-ci, invece, mostra l'illiceità di tale fusione, seppure oltre all'Uno nulla possa esistere. Paradosso buddhista.

    L'esser-sé porta alla gloria dell'Uno.
    Invece il ritrovarsi ad esser-ci mostra l'assurdo dell'esistenza di quell'Uno e richiede una via "etica" nei suoi confronti (nei confronti di sé). Non la liberazione dall'individualità, ma dall'essere stesso cui si è costretti nostro mal o buon grado.

    L'Uno è tale in virtù del fatto d'essere: esso raccoglie in se stesso tutto ciò che è altro da niente, dunque tutto l'essente: Uno.

    Il primo esito, di cui dicevo, trova una sua formulazione ed incarnazione nello "Io sono Brahman" o "Tu sei Quello" - per limitarci alle versioni più in voga su FB.

    Fu anche il mio primo esito per circa dieci anni - e come non poteva esserlo a seguito di ondate di meravigliata gioia?

    Ma una voce restava sul fondo, ed era il reclamo di senso.

    Qui si pone lo spartiacque e già vedo l'ondata dei critici che sostengono che nel Sé non c'è spazio per altro; la critica più pacata sostenendo che anche il dubbio è mente, mentre la più "agguerrita" (eufemismo) usando espressioni più insolenti e volgari - il buffo è che tali espressioni provengono, però, da parte di chi sostiene di essere sempre nell'Uno, dunque nella Verità. Il che è pur vero, ma non avvedutamente.

    Ma qui seguo il consiglio del Poeta: "non ragioniam di lor, ma guarda e passa."

    Per chi resta aperto, continuo.

    La voce del senso era in realtà quella del senso mancante.
    Il fatto d'essere, infatti, non è autocompiuto affatto, bensì assurdo.

    Il Sé, ovvero il tutto che ci accade di essere, è opaco; opaco di fondamento, ragione, autoportanza.

    Il Buddha non aderì alla tradizione vedico-vedantica o sankya (i cui principi possono risalire a era pre buddhista), sebbene, secondo Ashvaghosha, ne ottenesse un insegnamento profondo da grandi guru dell'epoca come Arada, Udraka ed altri, ma, risvegliatosi, invece che confermare quegli insegnamenti, pose l'an-atman - il non-sé, l'assenza di sé - a base dottrinale ed esperienziale.

    Anatman non è un'altra parola per Atman: lo nega.

    Qui anche un Ramana Maharshi, di cui sono sincero devoto da quasi quarant'anni, di cui ho conosciuto discepoli viventi, di cui conservo sacre SUE reliquie donatemi dal suo ultimo attendente, swami Satyananda di cui fui amico, vacilla.

    Il niente infonda e assurdizza ogni ente.
    Lo vacuizza: shunyata.
    E con ciò ci libera da noi stessi e dall'essere in cui ci ritroviamo.
    Niente niente, niente libertà.

    Non si tratta di fusione nell'unità del Sè, ma di stacco totale - senza residuo di ente.
    E non è annichilazione, ma… Prajna.

    Non annichila, ma pone il "protagonista" fuori dalle categorie dell'essere e del niente: Tathagata.

    Qui insorgeranno problemi in chi legge attentamente, lo so, poiché lo vorrà chiamare il Nulla, altro nome del Sè, ma non è così. Occorre percorrere questo filo di ricerca con una chirurgica precisione in meditazione a cui pochi sanno guidare.

    Tutto questo l'induismo, in tutte le sue forme, non lo ha visto - mentre invece lo hanno visto bene il Buddha e il Buddhismo nei suoi sviluppi della Prajnaparamita.

    Molti vorrebbero che il Buddhismo non fosse altro che una forma dell'induismo e, infatti, come notò acutamente Giuseppe Tucci, dal IV sec. vi furono certo sviluppi cripto-induisti di esso che ancora sopravvivono, ma il Buddhismo NON è una forma dell'Induismo.

    Tutto dipende dall'avvertire o meno quella voce subliminale, seppur, continua, del reclamo di senso.

    Senso che non c'è.
    E noi avvertiamo la sua mancanza sia in tonalità sofferte che meravigliate e beate.

    Non so cosa possa esser passato attraverso parole che sintetizzano il senso di oltre quarant'anni di ricerca e pratica; in fin dei conti non ha importanza, ovvero ce l'ha per chi la avverte.

    Il Buddhismo non dà risposte, ma porta ad una soluzione del rapporto dell'essente con se stesso.

    Un rapporto altrimenti devastante.

    "Difficile è da vedere il non sé", disse il Buddha.
    D'altronde, se non si passa attraverso il Sé, non è neppure possibile.

    E tenete presente: dicono "essere", ma continuano a pensare "ente".

    E l'Uno, il Sé, Dio, "quel" Nulla, sono enti.
    Solo chi sa la Differenza, sa dell’essere.
    Dell’essere di un assoluto prodigio.

    Di nessuno.
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    Franco Bertossa
     
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    Articolo del Maestro Franco Bertossa dalla pagina Facebook del 15/9/2021

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    Il Buddhismo insegna che tutta l'esperienza umana si può riconoscere e distinguere in cinque insiemi o skandha:

    1. Skandha Rupa: esperienza della forma - possiamo intenderla come esperienza materiale.
    2. Skandha Vedana: esperienza della percezione affettiva: quando entriamo in contatto con qualcosa e il contatto è vissuto con un apprezzamento-disprezzamento.
    3. Skandha Samjna: esperienza del concetto: quello che usiamo ora per ragionarci su in base ai concetti che abbiamo.
    4. Skandha Samskara: la volontà, l'intenzione, il ricordo, l'interesse che proviamo nel leggere e capire. L'attività precedente il movimento coscienziale e percettivo.
    5. Skandha Vijnana: il termine coscienziale delle sei vie d'accesso sensoriali: vista, udito, gusto, olfatto, tatto e visione mentale; là dove so che sento.

    Oltre a ciò non v'è nulla.

    Tutto quello che sperimentiamo è riducibile a queste cinque dimensioni d'esperienza.

    Il Sutra del Cuore cita: "Il bodhisattva Avalokiteshwara scorrendo gli elementi dell'esistenza vide solo cinque skandha e li colse vuoti".

    Ma prima del conseguimento della vacuità, mi soffermo sulla pratica, su quello "scorrere gli elementi dell'esistenza" (Gambhiravasambodha), pratica fondamentale del Buddhismo fin dalle origini.

    Accade che qualcuno vi insegni pratiche molto sottili e ancor più profonde.

    Un maestro tantrico, ad esempio.

    Allora, con opportuni assorbimenti, accade di "vedere i cinque skandha" scollarsi e offrirsi all'analisi individualmente.

    "Questa è forma, questa è percezione affettiva, questo è concetto, questa è intenzione e queste le sei coscienze".

    Su ciascuno degli skandha la focalizzazione può diventare così potente che essi, d'un tratto, appaiono "vuoti".

    È quello lo specifico momento - un lampo o un intervallo prolungato - in cui i fenomeni (i dharma) isolati e singolarizzati, non sono più se stessi.

    Si ha la intuizione della tathata, la medesimezza, la così-ità, la se stess-ità, dove nulla può più dire altro che sé.

    La singolarità.

    Anche solo un barlume e nulla avrà più lo statuto datogli in precedenza.
    Perfino il vedere assumerà una dimensione nuova, là dove anche il vedere è visto.. essere.

    E non niente.

    Ripropongo uno scritto del 2004 dove approfondivo la questione:
    Buddha e Heidegger. La vacuità e la differenza.
    www.asia.it/adon.pl?act=doc&doc=100


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    Franco Bertossa
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    Articolo del Maestro Franco Bertossa dalla pagina Facebook del 20/09/2021

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    La domanda guida lungo il percorso successivo a quel che considero il mio momento illuminante, è la seguente:

    Che signifca "sapere"?

    A parte e oltre il sapere comunemente inteso - ovvero come un disporre di nozioni e la capacità di operare su esse - mi accadde di vivere un sapere non deducibile e neppure intuibile; un che di totalmente "altro" che irruppe come un taglio al nodo gordiano del campo estremamente teso e sofferto in cui versavo.

    Risolvendolo.

    La sofferenza - "quella" sofferenza - svanì.

    Restò un profumo di mistero sapiente che invitava ad essere approfondito alla luce testé rivelatasi.

    Era, d'altronde, per me impossibile sottrarmi.

    Il fascino che ne emanava era troppo potente.

    E dunque ebbe inizio la spinta a saper più profondamente cosa sapere stesso significasse - posto che un primo assaggio irreversibile se n'era dato.

    La luce che illuminava quel primo e determinante evento era quella dell'essere.

    "Essere" in quanto prodigiosa e ingiustificabile differenza rispetto a niente, differenza rivelatasi grazie allo sprigionarsi dei sapori di stranezza e stupore; stranezza per il fatto stesso di esserci e stupore conseguente.

    Perché il puro e semplice niente-di-esserci è estremamente più semplice.
    Semplice al punto tale da non esistere neppure.

    Mentre eccoci qui - senza risposte e giustificazioni possibili.

    Puro miracolo di nessun Dio.

    E proprio perciò davvero miracolo.

    Ogniqualvolta mi si riaffaccia il portento ingiustificabile del mero fatto d'essere, vengo investito e accecato da un lampo di luce nera:

    Non puoi capire.
    Non potrai mai capire.
    Nessuno ha mai capito perché l'esserci e non niente di esserci.

    Neppure Dio - se è.

    Ho così preso a ricercare secondo istruzione di diverse tradizioni e anche intrapreso pratiche meditative estremamente sottili, quelle che si trasmettono in segreto per sillabe onde cogliere se l'allievo è in grado di completarle in virtù di una previamente maturata esperienza interiore.

    So arrivare alla luce primeva.

    In essa si cela il segreto della certezza.
    Essa viene indicata ai morenti per invitarli a cogliere l'eterno lume e abbandonarsi ad esso.

    Ma essa non è ancora Verità.

    La verità può svelarsi solo se quei sapori l'accompagnano - stranezza e stupore.

    Essi dicono dell'inaudito: che l'ente è e non piuttosto non è - secondo le illuminate parole di Heidegger.

    Che perfino la luce eterna è, è non piuttosto non è.

    Che la vera luce è quella che mostra il prodigioso "c'è" di ogni altra luce - foss'anche divina.

    La più profonda illuminazione porta anche al sapere che nessun ente è luogo dove lecitamente collocarsi, di cui fare casa propria.

    Una lecita appropriazione non esiste.

    Neppure appropriazione di sé.

    Tu non sei tuo - e neppure di altri.

    Tu non ti sei lecito.

    ......

    La via ingannevole è quella che vuole rispondere a "in ultimo chi, cosa, sono?".

    E le risposte non mancano.

    Mentre la via lecita e illuminata dal saper d'essere sa che, qualsiasi accadimento tu sia o possa essere, la verità è che esso accadimento stesso è.
    Che è, che non è un niente.

    Nessun come, o cosa, esso è, lo giustifica nel suo essere.

    Ogni ente, ogni fenomeno - ogni dharma - è "come sogno", secondo le parole di Nagarjuna.

    Resta una sapienza senza portatore di essa - seppure un io esista - quello che ora parla e legge - ma è un io surreale, più che irreale.

    Un simulacro metafisico.

    Questa invisibile e impensabile traccia schiude ad una gioia profonda - gioia che neppure è legata all'espressione della gioia stessa.

    Una gioia "altra", appunto.

    L'errore non vi è contemplato.

    Certezza e verità si impongono.

    E tutto ciò non è la fantasia di un visionario - come non lo è la tua esistenza, di cui non puoi che essere certo.

    Esistenza di cui non ti riesce di sapere fino in fondo la verità.

    Se tu esisti, tutto ciò che ho detto segue senza possibilità di sensata contestazione.
    ......

    La vita scorre e sappiamo che dovremo varcare una inquietante soglia.

    Quando?
    Sei pronto?


    Franco Bertossa



    Foto: Sapendo leggerlo, lo stupa, monumento commemorativo buddhista, spesso contenente reliquie, simboleggia tutta la via e la pratica del Vajrayana.
    Eppure, lì nel principio, si annidano esiti del tutto diversi tra l’orizzontale e il verticale, tra il come e il fatto che: il vuoto d’altro, il vuoto anche di sé, e lo stacco senza residuo.

    Edited by Loredana Sansavini - 22/9/2021, 08:27
     
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    La verità può svelarsi solo se quei sapori l'accompagnano - stranezza e stupore

    Perchè?

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    Assistenza di cui non ti riesce di sapere fino in fondo la verità.

    Cosa vuol dire?
     
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    signor no
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    CITAZIONE (warmbeer @ 22/9/2021, 00:47) 
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    La verità può svelarsi solo se quei sapori l'accompagnano - stranezza e stupore

    Perchè?

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    Assistenza di cui non ti riesce di sapere fino in fondo la verità.

    Cosa vuol dire?

    ti ammiro perche' hai capito tutto il resto del testo :XD:
     
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    CITAZIONE (zenbaba @ 22/9/2021, 08:08) 
    ti ammiro perche' hai capito tutto il resto del testo :XD:

    Il mio e' tutto un bluff. :XD: :XD:

    No, è che queste mi sembravano particolarmente criptiche.
     
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185 replies since 13/6/2021, 20:26   2928 views
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