Che cosa è il Buddhismo

di Sayagyi U Ba Khin

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  1. Tomo Ko
     
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    È per me un grande privilegio essere qui tra voi oggi e avere quest’o p p o r t u n i t à d i i n t r a t t e n e r v i s u l t e m a « C h e c o s ’ è i l Buddhismo». Come premessa, voglio essere con voi molto franco. Non sono stato all’università e le mie conoscenze scientifiche sono quelle dell’uomo della strada. Non sono nemmeno uno studioso della teoria del buddhismo e non conosco il Pāḷi, la lingua in cui sono conservati i Tipiṭaka (letteralmente i «tre canestri» del Buddha Dhamma). Posso dire, comunque, di aver letto qualche trattato sul buddhismo opera di monaci rinomati e molto dotti. Poiché il mio approccio è più pratico che teorico, spero di essere in grado di darvi del buddhismo qualcosa che non si trova facilmente altrove. Devo ammettere, comunque, che attualmente sono solo uno studente di buddhismo pratico, che fa esperimenti cercando di comprendere, tramite il
    buddhismo, la verità sulla natura delle forze. Poiché devo farlo da laico e nel poco tempo a disposizione lasciatomi dai molteplici impegni connessi alla responsabilità di ufficiale governativo, il mio progresso è alquanto lento e perciò non pretendo neanche per un istante che ciò che sto per dire sia assolutamente corretto; posso aver ragione o torto, ma quando vi dico una cosa, vi assicuro che è con sincerità di intenti, con le migliori intenzioni e con convinzione.
    Il Buddha disse nel Kāḷāma Sutta:
    Non dovete credere in ciò che avete udito; non dovete credere nelle tradizioni solo perché sono state tramandate per molte generazioni; non dovete credere in una cosa solo perché gira la voce e molti ne parlano; non dovete credere se vi viene prodotta l’affermazione scritta di qualche antico saggio;
    non dovete credere nelle congetture; non dovete credere che sia vero ciò cui siete attaccati per abitudine; non dovete credere meramente a causa dell’autorità dei maestri e degli anziani.
    Invece, Kāḷāma, dopo averle attentamente esaminate, accettate solo quelle cose che avete sperimentato e trovato universalmente benefiche e lasciate perdere, invece, quelle cose che presentano caratteristiche nocive [1].
    Vi prego, pertanto, di non credermi se pervengo a conclusioni filosofiche finché e a meno che non siate convinti di ciò che dico, sia inconseguenza di un ragionamento corretto, sia in seguito a un approccio pratico.
    Astenersi dal male, fare il bene e purificare la propria mente: questi sono gli insegnamenti di tutti i Buddha [2].
    Questo verso, tratto dal Dhammapada, riassume l’essenza del buddhismo. Suona semplice, ma è molto difficile da mettere in pratica. E non si può essere veri buddhisti finché non si mettono in pratica gli insegnamenti. Il Buddha disse:
    Voi, cui ho rivelato le verità che ho percepito, fatele veramente vostre, mettetele in pratica, meditate su di esse, divulgatele: in modo che la pura dottrina possa durare a lungo ed essere perpetuata a favore, beneficio e vantaggio degli dèi e degli uomini [3]. Prima di affrontare gli insegnamenti del Buddha, che costituiscono la base fondante del buddhismo, propongo di mettervi al corrente, per prima cosa, della storia della vita del Buddha Gotama. A questo proposito sento il dovere di esporvi il retroscena di certi concetti buddhisti che possono essere ignoti alla maggior parte di voi. Propongo, perciò, di darvi una breve spiegazione descrittiva di concetti come l’universo, le sfere mondane, i piani di esistenza, ecc.
    Ciò vi darà, senza dubbio, molto da pensare. Vi pregherei, comunque, di ascoltare pazientemente e di sospendere le obiezioni, per il momento, finché non arriverà il
    momento del dibattito.
    Il concetto buddhista di universo può essere riassunto così: c’è l’Okāsa Loka (l’universo inteso come spazio) in cui trovano posto nāma e rūpa (la mente e la materia). In questo mondo materiale nāma e rūpa predominano, sotto l’influenza della legge di causa ed
    effetto. Poi c’è il Saṅkhāra Loka, l’universo inteso come
    insieme delle forze mentali, creative o create. Questo è
    un piano mentale prodotto dalle energie creative della
    mente per mezzo delle azioni, delle parole e dei pensieri.
    Terzo e ultimo è il Satta Loka, l’universo inteso come insieme degli esseri senzienti visibili o invisibili, esseri prodotti da queste forze mentali. Potremmo anche chiamare questi tre l’universo tre-in-uno, perché ogni aspetto è inseparabile dagli altri. Essi sono, come dire, interconnessi e interpenetrantisi.
    Forse vi interesseranno di più i cakkavāla, o sfere mondane, ciascuno dei quali si suddivide in 31 piani di esistenza. Ci sono
    milioni e milioni di tali sfere mondane: sono, semplicemente, innumerevoli. Le diecimila sfere mondane più prossime a noi si collocano entro il jātikhetta, ossia il campo d’origine d’un Buddha. Infatti, quando il Buddha proferì il celebre sutta (o discorso) Mahā Samaya (che significa della grande adunanza) nel Mahāvana (grande foresta) vicino alla sua città natale di Kapilavatthu, ad ascoltare non c’erano solo i Brahmā e i deva della nostra sfera mondana, ma anche tutti quelli delle diecimila sfere mondane più vicine [4].
    Il Buddha può anche soffondere con le onde-pensiero cariche di
    sconfinato amore e compassione gli esseri senzienti di un miliardo di tali sfere mondane, entro l’āṇākkhetta, ossia il suo campo d’influenza. Il resto delle sfere mondane si collocano nel visayakhetta, ossia nello spazio infinito, oltre il raggio di efficacia delle onde-pensiero del Buddha. Potete ben immaginare da questi concetti quale sia, nella visione buddhista, la grandezza dell’intero universo. L’insignificanza materiale del nostro mondo nell’Okāsa Loka (l’universo inteso come
    spazio) è semplicemente terrificante. L’intero mondo umano non è che
    un granellino nello spazio.
    Ora vi darò un’idea dei trentuno piani di esistenza entro la nostra
    sfera mondana, i quali, naturalmente, sono i medesimi di qualunque
    altro sistema mondano. Grosso modo sono:
    Arūpa Loka, ossia il mondo immateriale dei Brahmā;
    Rūpa Loka, il mondo di materia sottile dei Brahmā;
    Kāma Loka, il mondo sensuale dei deva, dell’umanità e degli esseri inferiori.
    L’Arūpa Loka comprende quattro mondi dei Brahmā di stati immateriali, ossia privi di rūpa, o materia; il Rūpa Loka comprende sedici
    mondi dei Brahmā di materia sottile; il Kāma Loka è composto di:
    Sei Deva Loka (o mondi superi):
    Cātummahārājikā (il mondo dei quattro re guardiani);
    Tāvatiṃsā (il mondo dei trentatré deva);
    Yāmā;
    Tusitā;
    Nimmānaratī (coloro che godono delle proprie creazioni);
    Paranimmita-vasavattī (coloro che godono delle creazioni altrui).
    Il mondo umano;
    I quattro mondi inferi (Apāya):
    Niraya (il purgatorio);
    Tiracchāna (il mondo degli animali);
    Peta (il mondo degli spiriti);
    Asura (il mondo dei demoni).
    Tutti questi piani di esistenza sono puri o impuri, freschi o caldi, luminosi o scuri, pesanti o leggeri, piacevoli o tormentosi a seconda del
    carattere delle forze mentali generate dalla mente tramite le volizioni
    (cetanā) associate a una determinata serie di azioni, parole e pensieri.
    Per esempio, facciamo il caso di un uomo pio che soffonda l’intero
    universo con sconfinato amore e compassione: egli deve per forza
    generare forze mentali pure, fresche, luminose, leggere e piacevoli, che
    normalmente si depositano nei mondi dei Brahmā. Prendiamo ora il
    caso opposto di un uomo insoddisfatto o arrabbiato. Come dice il
    proverbio, «il volto riflette il cuore». L’impurità, l’oscurità, la pesantezza e il tormento del suo cuore si riflettono immediatamente sulla persona, visibili perfino a occhio nudo.
    Ciò è dovuto, posso dire, alla produzione delle forze mentali distruttive radicate nella rabbia (dosa), che si collocano nei mondi di esistenza inferiori. Lo stesso avviene con le forze prodotte dall’avidità
    (lobha) o dall’illusione (moha). Nel caso di azioni meritorie come la devozione, la buona condotta e la carità che sono motivate dal desiderio
    di un futuro benessere, le forze sono tali da andarsi a collocare normalment e ne i pi ani s ensua l i de i deva ( e s s e r i c e l e s t i a l i ) e de l gene r e
    umano. Questi signore e signori, sono alcuni dei concetti buddhisti rilevanti per la storia della vita del Buddha Gotama.

    Il Buddha Gotama è stato il quarto dei cinque Buddha che si manifestano in un ciclo cosmico auspicioso (Bhadda Kappa).
    I suoi pr ede c e s sor i furono i Buddha Kakus anda ,
    Koṇāgamana e Kassapa. Innumerevoli altri Buddha si
    manifestarono in cicli cosmici precedenti e predicarono
    lo stesso Dhamma che dà liberazione dalla sofferenza e
    dalla morte a tutti gli esseri che sono pronti ad accoglierlo. Tutti i Buddha sono compassionevoli, gloriosi e illuminati.
    Un eremita di nome Sumedha si ispirò al Buddha
    Dīpankara al punto di votarsi a intraprendere tutta la
    preparazione necessaria per diventare, a tempo debito,
    un Buddha. Il Buddha Dīpankara lo benedisse e gli preconizzò che sarebbe divenuto un Buddha col nome di
    Gotama dopo quattro lassi tempo incalcolabili [5] di cicli
    cosmici, più altri centomila cicli cosmici (kappa). Da allora in poi, vita dopo vita, il futuro Buddha (bodhisatta) pr e s e rvò l e ene rgi e ment a l i de l l ’ordine più e l eva to
    tramite la pratica delle dieci pāramitā (o pāramī, ovvero
    le buone qualità che conducono alla perfezione):
    Dāna Pāramī, la carità;
    Sīla Pāramī, la buona condotta;
    Nekkhamma Pāramī, la rinuncia;
    Paññā Pāramī, la saggezza;
    Viriya Pāramī, la perseveranza;
    Khanti Pāramī, la pazienza;
    Sacca Pāramī, la sincerità;
    Adhiṭṭhāna Pāramī, la risolutezza;
    Mettā Pāramī, l’amorevolezza;
    Upekkhā Pāramī, l’equanimità.
    È perciò un compito molto arduo diventare un Buddha: ci vuole
    una bella forza di volontà anche solo per pensarci. Il periodo preparatorio del Bodhisatta giunse al termine con la vita del re Vessantara [6]
    che superò ogni altro vivente nella carità. Donò il proprio regno, la
    propria moglie e i figli e tutti i beni terreni per adempiere al voto
    solenne che aveva proferito di fronte al Buddha Dīpankara. Trascorse
    l’esistenza successiva nel paradiso di Tusitā, nella forma del glorioso
    deva Setaketu, finché non si liberò anche da quel piano di esistenza e
    f u c o n c e p i t o n e l g r e m b o d i M ā y ā D e v ī , l a r e g i n a s p o s a d e l r e
    Suddhodana di Kapilavatthu, una località vicina all’odierno Nepal.
    Quando si approssimò il momento del parto, la regina espresse il
    desiderio di andare a partorire nella casa paterna. Il re Suddhodana
    acconsentì, dandole per il viaggio un conveniente seguito di accompagnatori e guardie. Mentre erano per via, fecero una sosta nel bosco di
    Lumbinī. La regina scese dal palanchino e si ristorò nella fresca brezza
    e nella fragranza dei fiori di sal [7]. Mentre tendeva la mano destra verso un vicino ramo per cogliere un fiore, all’improvviso e in modo del
    tutto inatteso, diede alla luce il bambino che sarebbe diventato il
    Buddha pienamente risvegliato. Sincronicamente, l’ordine naturale
    delle cose nel cosmo fu rivoluzionato sotto molti aspetti e si manifestarono trentadue prodigi. Tutti i mondi materiali furono scossi fin dalle
    fondamenta; vi furono inconsuete illuminazioni nel sistema solare; tutti gli esseri dei piani materiali di esistenza poterono vedersi gli uni con
    gli altri; i sordi e i muti guarirono, musiche celestiali si udirono
    ovunque e così via.
    In quel momento, Kalādevala, l’eremita maestro del re Sudodhodana
    si intratteneva, nell’estasi, con gli esseri celestiali del piano divino di
    Tāvatiṃsā. Era un eremita famoso, che aveva raggiunto gli otto conseguimenti (samāpatti) che lo dotavano di poteri soprannaturali.
    Venuto a conoscenza della nascita del figlio del re, nel bel mezzo del
    tripudio di tutti i reami di Rūpa e Kāma, si affrettò verso il palazzo e
    chiese che gli fosse portato il bimbo per benedirlo. Mentre il re stava
    per deporre, come si conveniva, il bambino ai piedi del maestro,
    avvenne un altro prodigio. Il bambino s’innalzò nell’aria e posò i piedini sul capo di Kalādevala, che di colpo comprese che il neonato altri
    non era che il futuro Buddha. Il vecchio asceta sorrise al pensiero, ma
    subito dopo pianse, perché previde che non sarebbe vissuto abbastanza per poter ascoltare i suoi insegnamenti anche perché, dopo morto, sarebbe stato nell’Arūpa Brahmā Loka, ossia in un mondo immateriale dei Brahmā, luogo dal quale non è possibile alcuna relazione col piano materiale. Così si rammaricò grandemente all’idea di aver mancato di così
    poco il Buddha e il suo insegnamento.
    I l q u i n t o g i o r n o a l b a m b i n o f u d a t o i l n o m e d i
    Siddhattha, alla presenza di rinomati astrologi, i quali
    convenirono che il bimbo aveva tutte le caratteristiche
    del Buddha a venire. La madre, tuttavia, morì una settimana dopo il parto e del bambino si prese cura la zia
    materna, Pajāpati Gotamī.
    Siddhattha passò i primi anni nell’agiatezza, nel lusso
    e nella cultura. Era acclamato come un prodigio di forza
    e di intelligenza. Il re non badò a spese per rendergli la
    vita facile. Fece costruire tre diversi palazzi, per meglio
    adattarsi alle tre stagioni del caldo, del freddo e delle piogge, equipaggiandoli di tutto il necessario per far sprofondare il principe nella sensualità. Perché il re, nel suo
    affetto paterno, desiderava che il figlio gli succedesse al
    trono piuttosto che diventare un Buddha illuminato.
    Curava che il figlio stesse in un ambiente che non gli
    ispirasse troppe idee filosofiche. Per assicurarsi che i
    pensieri del principe non prendessero mai quella direzione, ordinò che nessuno dei servi o dei compagni dicesse mai una
    sola parola della vecchiaia, della malattia e della morte. Tutti dovevano
    comportarsi come se le cose spiacevoli non esistessero affatto al mondo. I servi o gli attendenti che mostravano il minimo segno di invecchiamento o di malattia venivano rimpiazzati. E poi c’erano sempre
    danze, musica e feste, per tutto il tempo, per tenere il giovane principe
    nel cono d’ombra della sensualità.

    Man mano che passavano i giorni, i mesi e gli anni, tuttavia, la
    sensualità dell’ambiente, causa la monotonia, perse la presa sulla
    mente del principe Siddhattha. Le energie mentali della virtù preservate nel corso delle sue innumerevoli vite precedenti in vista del conseguimento del grande obiettivo della buddhità scaturirono automaticamente. A volte, quando il mondo della sensualità perdeva il controllo sul suo cuore, il sé interiore si faceva strada verso la superficie e sollevava la sua mente a uno stato di purezza e di tranquillità con la
    forza della concentrazione (samādhi) proprio come aveva innalzato la
    sua forma di neonato fin sul capo di Kalādevala.
    Cominciò la guerra dei nervi. Una fuga dalla passione e dalla sensualità fu il suo primo pensiero. Voleva sapere che cosa vi fosse fuori dai
    muri del palazzo, perché non era mai uscito, nemmeno una volta.
    Voleva vedere la natura così com’è e non addomesticata dall’uomo. Di
    conseguenza, decise di andare a vedere il parco reale, che si trovava
    fuori dalle mura del palazzo. Sulla via verso il parco, a dispetto delle
    precauzioni prese dal re per sgomberare le strade da qualunque spettacolo sgradevole, proprio nel corso della prima visita, vide un vecchio, piegato dal peso degli anni. Poi vide un ammalato, sofferente per
    il dolore causato da un morbo fatale. E infine si imbattè in un cadavere
    umano. Nel corso dell’ultimo viaggio si imbattè in un monaco. Questi
    incontri predisposero il suo cuore a intraprendere un serio cambiamento. La sua predisposizione mentale mutò. La sua mente si ripulì
    dalle impurità e si sintonizzò con le forze delle virtù conservate nel
    Saṅkhāra Loka, il piano delle forze mentali. Allora il suo cuore si
    liberò dagli ostacoli, divenne tranquillo, puro e forte.
    Tutto ciò accadde la notte in cui la moglie aveva dato alla luce un
    bambino, un nuovo legame che l’avrebbe ulteriormente trattenuto.
    Egli era, comunque, immune da qualunque cosa potesse sconvolgere il
    suo equilibrio interiore. La virtù della determinazione si fece strada e
    lo portò a una forte decisione ed egli si risolse così a cercare una via
    d’uscita dalla nascita, dalla vecchiaia, dalla sofferenza e dalla morte.
    Scoccava la mezzanotte quando prese la risoluzione solenne. Chiese al
    suo attendente Channa di tener pronto lo stallone Khantaka. Dopo
    uno sguardo d’addio alla moglie e al figlio neonato, Siddhattha ruppe
    ogni legame colla famiglia e con il mondo e attuò la Grande Rinuncia.
    Cavalcò attraverso la città fino al fiume Anomā, che poi attaversò per
    non ritornare, se non a missione compiuta. Dopo la grande rinuncia, il principe Siddhattha, indossato
    l’abito dell’asceta vagante e con in mano con la ciotola per l’elemosina, si mise in cerca di un maestro. Si mise alla scuola di due rinomati maestri brahmani, Āḷāra Kāḷāma e Uddaka Rāmaputta. Āḷāra
    sosteneva la credenza nell’esistenza di un’anima (atman) e insegnava
    che quest’anima avrebbe ottenuto l’indefettibile liberazione quando
    sarebbe stata libera dalle limitazioni materiali. Ciò non soddisfece il
    principe, che perciò dopo si recò da Uddaka, il quale enfatizzava troppo l’effetto del kamma (le azioni volontarie) e la trasmigrazione dell’anima. Entrambi i maestri non erano riusciti ad andare oltre il concetto di «anima», e il principe asceta sentiva che c’era qualcos’altro da
    imparare. Perciò li abbandonò entrambi per trovare la via dell’emancipazione per proprio conto. A quel tempo, comunque, aveva ottenuto
    gli otto conseguimenti (samāpatti), ed era diventato un esperto nell’esercizio di tutti i poteri soprannaturali, inclusa la capacità di vedere gli
    eventi di molti cicli cosmici passati e futuri. Questi conseguimenti, tuttavia erano sempre compresi nel campo mondano e non interessavano
    molto il principe asceta la cui ambizione era la fuga da
    questo retaggio di sofferenza terrena, di nascita e di
    morte.
    In seguito si unirono a lui altri cinque asceti, uno dei
    quali, di nome Koṇḍañña, era l’astrologo chiromante che
    il quinto giorno aveva profetizzato con sicurezza che il
    principe neonato sarebbe diventato un Buddha. Questi
    asceti lo servirono bene nel corso dei sei lunghi anni in
    cui Siddhattha si sottopose a digiuni e meditazioni, mettendo in atto varie forme di austerità e discipline rigorose al punto che alla fine si ridusse ad essere praticamente uno scheletro. Tanto che un giorno, cadde sfinito
    dall’inedia. Quando si riprese da questo stato cambiò
    metodo, seguì la via di mezzo e la strada verso il risveglio si aprì.
    La vigilia del giorno di plenilunio del mese di
    Vesākha [8], circa 2540 fa [9], il principe Siddhattha,
    asceta vagante, si sedette a gambe incrociate sotto un
    albero di pipal (ficus religiosa) sulle rive del fiume
    Neranjārā, nella foresta di Uruvelā (vicino all’odierna
    B u d d h a g a y ā ) c o n l a f o r t e d e t e r m i n a z i o n e d i n o n
    muoversi da quella posizione finché non avesse trovato
    la verità e il risveglio, la buddhità, anche se avesse dovuto perdere la vita nel tentativo.
    Il grande evento stava per accadere. Il principe asceta
    raccolse tutte le sue forze mentali e spirituali per conseguire quella focalizzazione della mente su un solo punto che è così
    essenziale per la scoperta della verità. L’equilibrio del cuore, il principe
    se ne accorse subito, non sarebbe stato facile da raggiungere in quell’occasione. Attorno a lui non c’era solo la combinazione delle forze
    dei piani inferiori con quelle dei piani superiori, ma anche interferenze
    abbastanza forti da scuotere, interrompendolo, l’equilibrio dello spirito. La resistenza dell’impenetrabile massa di forze contro la radiazione
    della luce che di solito si assicurava facilmente era inusuale, forse perché era giunto alla stretta finale prima della buddhità e Marā, il supremo controllore delle forze antagoniste agiva nel retroscena.
    Il principe, comunque, si fece strada lentamente, ma con sicurezza,
    nell’oscurità, sostenuto dalle forze mentali della virtù che dovettero
    tornare a lui al momento giusto. Fece un voto e chiamò tutti i Brahmā
    e i Deva che erano stati testimoni delle perfezioni raggiunte, a unire le
    mani con lui per conseguire la vittoria finale. L’unione con le forze
    trascendentalmente pure dei Brahmā e dei Deva ebbe un effetto decisivo. La spessa massa delle forze oscure, che sembrava fino a quel momento impenetrabile, si squarciò e con il fermo controllo sullo spirito
    vennero spazzate via una volta per tutte.
    Superati tutti gli ostacoli il principe riuscì a aumentare il proprio
    potere di concentrazione e a porre il cuore in uno stato di completa
    purezza, tranquillità ed equanimità. Gradualmente si impossessò di
    lui la coscienza della vera introspezione. La soluzione a tutti i problemi vitali con cui si era scontrato fece capolino nelle sua coscienza come
    un’ispirazione. Con la meditazione introspettiva sulle realtà della
    natura interiore potè rendersi conto che non c’è sostanzialità alcuna e
    che il corpo non è altro che l’insieme di innumerevoli milioni di kalāpa, microentità delle dimensioni di 1/46656mo [10] di una particella di polvere sollevata dalla ruota di un carro d’estate. A un’ulteriore invest iga z ione s i r e s e conto che que s t i k a l ā p a (mi c ros t r inghe ) sono in
    perenne stato di mutamento o flusso. Lo stesso vale per la mente, che è
    la rappresentazione delle forze mentali creative che fuoriescono e delle
    forze mentali create che entrano nel sistema di un individuo continuamente, per l’eternità.
    Il Buddha proclamò allora che l’Occhio della Saggezza (paññā-
    cakku) si era manifestato allorché aveva trionfato su tutte le false
    percezioni di sostanzialità dentro di sé. Vide, per mezzo della lente
    d’ingrandimento della concentrazione (samādhi) i kalāpa, cui applicò la
    legge dell’impermanenza (anicca) e li ridusse a non-entità, puramente comportamentali, facendola finita con ciò che noi, nel
    buddhismo, chiamiamo concettualismo (paññatti) pervenendo così allo stato di comprensione della natura delle
    forze (paramattha), in altre parole, alla realtà ultima.
    Di conseguenza pervenne alla scoperta dello stato di
    perpetuo cambiamento (anicca) della mente e della materia e quindi, di conseguenza, alla realizzazione della prima verità, la sofferenza (dukkha). Fu allora che in lui l’egocentrismo si frantumò nel vuoto pervenendo così a
    uno stato oltre la sofferenza (dukkha-nirodha), senza più
    alcuna traccia di atman, o di attaccamento al sé lasciato
    indietro. La mente e la materia erano per lui nient’altro
    che vuoti fenomeni che continuano a riprodursi eternamente a causa della legge di causa ed effetto e della coproduzione condizionata. La verità venne a galla. Le
    qualità latenti del Buddha potenziale si svilupparono e il
    completo risveglio venne a lui all’alba del Vesāk. In verità
    il principe Siddhattha conseguì il Supremo Risveglio
    (Sammā-sambodhi) e divenne il Buddha, il Risvegliato,
    l’Illuminato, l’Onnisciente. Egli si svegliò in un modo
    comparato col quale tutti gli altri dormivano e sognavano. Si illuminò in un modo comparato col quale tutti
    gli altri uomini inciampavano e brancolavano nelle tenebre. Conobbe con una conoscenza paragonata alla quale quella degli
    altri uomini non era che una forma di ignoranza.
    Signore e signori, oggi vi ho preso tanto tempo. Vi ringrazio per
    l’ascolto paziente. Devo ringraziare anche il clero della chiesa per il
    gentile permesso concessomi di fare questo discorso.


    Edited by warmbeer - 16/2/2012, 15:31
     
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